martedì 13 gennaio 2015

Le vicende architettoniche della Chiesa di S. Pietro al Po

4°altare navata sinistra con l'affresco superiore di Giulio Campi
Pubblico una splendida analisi storico-artistica del complesso monumentale della chiesa di San Pietro al Po del compianto Mons. Franco Voltini, grande storico dell'arte cremonese.
L'articolo è preso dalla pubblicazione parrocchiale del 1992 in occasione del quarto centenario della Consacrazione della Chiesa.


Secondo notizie fornite da un’accreditata documentazione, le origini della chiesa di S. Pietro risalgono al 1064, quando due sposi di nome Edina e Ardingo, trovandosi senza figli e assai provvisti di beni di fortuna, decisero d’impegnare le loro ricchezze nell’erezione di ben sette chiese entro l’area della città.
Una tra queste fu appunto dedicata a S. Pietro, ed è da presumere che si trovasse nel luogo stesso dell’attuale chiesa omonima, o nelle immediate vicinanze di essa, dal momento che uno storico fidato come il Merula (Santuario di Cremona, 1627) parla della località come di «un gran guasto... terreno verso il Fiume Po».
E' noto infatti che il Po, ancora al tempo in cui Antonio Campi disegnava la sua pianta di Cremona (1583), scorreva ai limiti della piazzetta antistante la chiesa dove, in epoca più remota, il lato meridionale delle mura della città romana veniva a incontrarsi con il lato occidentale.
Non è da escludere anzi che proprio la qualità del terreno abbia suggerito, appena quattro anni dopo la fondazione della chiesa (1068), di chiamare a reggerla i Benedettini, ben noti impresari di opere di bonifica e di risanamento di luoghi paludosi.
Come fosse strutturata quella primitiva chiesa non è in alcun modo documentato.
Si sa soltanto che, nel 1071, il primo Abate chiese ed ottenne dal papa Alessandro Il che il Monastero passasse alle dirette dipendenze della S. Sede, certo per renderlo esente dalla giurisdizione del Vescovo, secondo una prassi assai frequente in quegli anni.
Ma i Benedettini dovettero restare a S. Pietro non oltre il 1439; gli storici locali affermano di fatto che i monaci, travagliati e indebitati e ridotti dì numero a causa di guerre e di pestilenze, impossibilitati a provvedere agli urgenti restauri degli edifici, si trovarono nella necessità di lasciare chiesa e monastero ad altro Ordine religioso.
Con il beneplacito di Papa Eugenio IV furono allora sostituiti dai Canonici Lateranensi della Congregazione romana di S. Pietro in Vincoli, i quali provvidero ad una integrale ricostruzione della chiesa.
Oltre un secolo dopo avrebbero poi posto mano, come si dirà, ad una nuova ristrutturazione, destinata a dare al tempio il volto architettonico che tuttora conserva.
I Lateranensi ressero S. Pietro fino al 1782, quando la Canonica venne soppressa.
Subentrarono i Carmelitani Neri della chiesa cittadina di S. Bartolomeo (si trovava lungo l’attuale Corso Vittorio Emanuele, sull’area ora occupata dall’Intendenza di Finanza) in luogo dei quali, soppressi a loro volta nel 1788, vennero l’anno dopo i Barnabiti, che dai tempi di S. Carlo reggevano la chiesa dei SS. Giacomo e Vincenzo (via Palestro).
Trasferiti poi i Barnabiti alla chiesa di S. Marcellino, il convento e la chiesa di S. Pietro furono retti dai Signori della Missione, che però la lasciavano appena due anni dopo per trasferirsi nella chiesa dei SS. Giacomo e Vincenzo.
Così l’antico monastero passava definitivamente dalla giurisdizione dei Religiosi a quella del Vescovo, che nel 1808 attribuiva a S. Pietro anche la cura d’anime già annessa alla chiesa di S. Giorgio frattanto ridotta ad uso profano e in seguito demolita (si trovava nell’attuale piazza Marconi).
Il chiostro maggiore del monastero venne adibito a caserma; una parte del cortile a fianco del refettorio monastico fu occupata dal palcoscenico del Teatro Concordia; il chiostro minore, a ridosso della fiancata di sinistra della chiesa, compreso il refettorio, fu riservato ad abitazione del parroco e a servizio della parrocchia.

La vicenda architettonica
Dobbiamo allo storiografo cittadino Giuseppe Bresciani (1589 o 1599-1670) le informazioni pressoché uniche di cui disponiamo per ricostruire, sia pure sommariamente, le vicende architettoniche della chiesa.
Posto, come si disse, che niente conosciamo della primitiva chiesa benedettina, è necessario risalire agli anni successivi al 1439 per avere le prime sicure indicazioni.
Risulta infatti che i Canonici Lateranensi, una volta entrati in possesso dell’abbazia, «diedero... principio ad ampliare la Chiesa come di presente si vede facendola d’una nave sola ed ornare con stucchi oro e pitture nobìlissime per lunghezza d’essa».
Quando esattamente l’operazione sia stata eseguita non è possibile dire, ma da quanto sussiste di quella ricostruzione si dovrebbe dedurre ch’essa va collocata senz’altro nella avanzata seconda metà del ‘400.
Di essa rimangono infatti la planimetria generale e, pur sotto gli aggiornamenti cinquecenteschi, la struttura della facciata, di cui il Puerari ha riconosciuto l’immagine in una tarsia del Coro della Cattedrale, eseguito dal Platina tra il 1482 e il 1490, e che propone le soluzioni tipiche de De Lera (secoli XV - XVI) nelle stesure rinascimentali delle superfici ripartite e profilate dalle modanature in cotto.
Della stessa ristrutturazione quattrocentesca s'intravedono poi, sulla fiancata esterna di destra dell'edificio, le sagome oblunghe e arcuate delle finestre, tamponate presumibilmente a seguito del rifacimento cinquecentesco.
Per quanto riguarda l'interno, la navata unica doveva ave re le cappelle sui lati, secondo la planimetria realizzata anche nel tempio press’a poco coevo di S. Sigismondo, con il quale questa chiesa aveva certamente più affinità di quanto non ne appaiano oggi (val la pena di citare, oltre l’allineamento delle pareti laterali con i capocroce del transetto, la vicinanza di rapporti proporzionali esistenti in lunghezza e larghezza fra le due chiese: S. Pietro misura mt, 64 x 24,30; S. Sigismondo misura mt. 59 x 22,30).
Il rifacimento cinquecentesco al qua le ci si è già più volte riferiti, non è univocamente documentato presso i locali storiografi e compilatori di «guide».
Generalmente è ripetuta la notizia che fu l’abate del monastero, Colombino Ripari, non solo a volere l’opera ma anche a farne il progetto; e viene riportato l’accordo che in data 23 agosto 1563 fu pattuito fra l’abate stesso e «mastro» Agostino da Covo per la realizzazione di una chiesa «con cinque Cappelle per ogni banda».
Qualche autore poi, senza fare questione di date, mira piuttosto ad attribuire un blasone di nobiltà al monumento assegnandone la progettazione addirittura al Palladio,
Nessuno, tranne il Puerari, mostra d’aver tenuto in considerazione quanto già il Bresciani aveva annotato in più luoghi dei suoi manoscritti, che, cioé, a realizzare l’opera fu l’architetto cremonese Francesco Dattaro (attivo fino al 1576): «fabricò la Chiesa di S. Pietro de Canonici Regolari Lateranensi, che d’una nave sola la ridusse a tre come hoggidì si vede».
L’impresa avrebbe avuto compimento tra il 1573 e il 1575, a seguito di un improvviso e rovinò crollo di tutta la volta dell’edificio, avvenuto appunto nel 1573, il giorno dell’Epifania, appena dopo che il sagrestano aveva chiuso la chiesa («cadette il volto a terra el quale rovino tutta la suddetta chiesa per essere d’una nave sola... »).
La non coincidenza delle date fra la notizia del Bresciani e la testimonianza degli altri storiografi crea un problema non facilmente risolvibile.
In questo caso, almeno, sembra che la versione dei fatti fornita dal Bresciani, il quale scriveva del resto in tempi relativamente vicini alloro verificarsi, sia la più accreditabile.
E la conferma potrebbe essere proprio l’indicazione del nome di Francesco Dattaro come architetto della ricostruzione della chiesa.
Gli studi del Puerari ci consentono oggi una più precisa indicazione del linguaggio di questo architetto che a Cremona godette di una posizione di preminenza in tutta la seconda metà del ‘500.
Ebbene, nella chiesa di S. Pietro, come ci si presenta oggi, i termini del suo linguaggio sono facilmente riconoscibili: nella facciata, soltanto «modernizzata» nel suo impianto quattrocentesco, suoi sono il cornicione, retto da mensole binate in cotto e fortemente aggettante, che segna i due piani; le alte cuspidi marmoree sui lati; la finestra a tre luci sangallesco-palladiana che poi ricorre anche sui fianchi e nei capocroce del transetto, nonché il disegno del portale in marmo simile a quello di S. Sigismondo, l’uno e l’altro realizzati poi dal «picapreda» Sebastiano Nani (2 metà del sec. XVI).
Essendo del tutto plausibile l’informazione del Bresciani relativamente al Dattaro, è da supporre che lo sia altrettanto nel riferimento cronologico.
Si può così ritenere assai probabile che, realizzatosi il progetto del 1563 secondo l’accordo stipulato fra l’abate e Agostino da Covo, si siano poi dovuti riprendere i lavori, dieci anni dopo, per la necessità imposta dall’emergenza di cui s’è detto.
Ma nel frattempo, ed esattamente nel 1570, lo stesso abate Ripari era morto, per cui anche la presunta parte di progettista ch’egli avrebbe avuto nell’impresa della riedificazione, secondo il tradizionale riferimento degli storici dovrebbe ritenersi quanto meno assai ridimensionata dal successivo intervento del Dattaro nella fase risolutiva della vicenda.
Si addossa alla chiesa, in contiguità con il capocroce destro del transetto il campanile, del quale solo la parte inferiore è antica: potrebbe risalire alla primitiva costruzione della chiesa del 1068, ma è forse più plausibile collegarla alla ricostruzione quattrocentesca.
Si evidenzia comunque, nella diversa muratura, l’operazione di rifacimento della parte alta della torre eseguita nel 1840 dall’Arch. Luigi Voghera (1788-1840), il quale, come risulta da documenti dell’epoca, dovette ripetere fedelmente le forme della originaria struttura gotica.

L’interno
La ricostruzione cinquecentesca della chiesa non fu senza condizionamenti:
si trattava di adattarsi alla superstite planimetria quattrocentesca e di ricavare, entro quella, il nuovo interno a tre navate.
E' chiaro che alla creazione delle due navate minori non poteva bastare lo spazio offerto dalla riduzione delle cappelle laterali a semplici vani per allogare gli altari sotto un archivolto retto da spalle sporgenti dai muri perimetrali; occorreva di necessità ridurre anche lo sviluppo trasversale della navata maggiore.
Si spiegano così le inconsuete proporzioni della navata stessa che, anche all’osservatore più superficiale, si rivela piuttosto angusta in rapporto alla lunghezza e all’altezza della costruzione.
Singolare poi appare la strozzatura che lo sviluppo longitudinale dell’interno subisce in corrispondenza del presbiterio; ma l’anomalia si dovrebbe alla collocazione del campanile, un lato del quale, nella parte inferiore, funge addirittura da parete del presbiterio stesso a destra per chi guarda dalla navata.
Tenuti presenti questi condizionamenti, è più facile notare come l’architetto abbia interpretato lo spazio interno disponibile; fedele ad un modulo tipicamente manieristico, attraverso la ricerca di un equilibrio cadenzato, egli realizza felicemente quella sistemazione concatenata in cui tutto obbedisce ad un ordine prestabilito in funzione calcolata di ricerca scenografica.
È stato osservato, così, l’effetto di correzione ottica studiato e conseguito nella navata centrale, la quale, andando dall’ingresso al presbiterio, si riduce di circa un metro consentendo all’occhio di chi entra di cogliere tutta la successione ritmata dei pilastri e degli archi, convergenti prospetticamente verso il presbiterio in modo da renderne meno sensibile l’improvviso restringimento.



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