giovedì 23 luglio 2015

Gli insediamenti rurali di età romana nel Cremonese - uno studio di Gianluca Mete


Nel corso degli scavi del metandotto, realizzato da Snam tra Cremona e Sergnano, sono state individuate diverse evidenze ascrivibili all’età romana.
Anche se, come vedremo, si tratta di ritrovamenti di natura e funzione diversa, la totalità dei dati è relativa direttamente o indirettamente ad aspetti insediativi, che ampliano un quadro sino ad oggi ancora eccessivamente ridotto per la provincia cremonese e contribuiscono alla comprensione del contesto rurale in Cisalpina[1] .
Il popolamento romano della pianura rientrava in un grande quadro insediativo, un progetto di ampio respiro che prevedeva la costruzione di infrastrutture stradali, il potenziamento dei percorsi preesistenti e la grande opera di assetto e bonifica agraria nota come centuriazione [2] .
La fondazione delle colonie di Cremona e Placentia, oltre che legata a dinamiche politico-militari, rappresentava la volontà di creare un avamposto settentrionale, in un territorio che aveva grandi risorse economiche e agricole per finanziare l’apparato statale e, come nel caso di Cremona dopo la battaglia di Filippi, liquidare la richiesta di terre da parte dei veterani [3].
In un contesto così complesso si andavano a inserire gli insediamenti rurali, non solo nella naturale ottica dello sfruttamento agricolo, ma anche, del controllo territoriale, in un quadro ancora complesso e precario agli inizi del II secolo a.C., soprattutto dal punto di vista dei rapporti politici e sociali tra Roma e le popolazioni indigene. Soltanto a partire dal I secolo a.C., con il definitivo e stabile controllo romano sul territorio, possiamo pertanto immaginare una diffusione ampia e capillare degli insediamenti rurali.
In maniera preliminare va sottolineato come gli attuali confini della provincia cremonese non corrispondano esclusivamente a quelli dell’antico ager cremonensis, diviso e assegnato a partire dalla fine del III secolo a.C., ma comprendano anche parte del territorio riconducibile all’ager bergomensis, centuriato verosimilmente molto più tardi, come per la vicina Laus Pompeia [4] , a partire dal 89 a.C., in seguito all’azione della lex Pompeia de Transpadanis [5] .
Tale premessa è indispensabile nella comprensione di un contesto rurale complesso, non solo nelle sue definizioni cronologiche, ma anche spaziali.
I lavori hanno così permesso di leggere in maniera più ampia i caratteri del popolamento in età romana, dal momento che sono stati diversi i siti individuati e attribuibili distintamente ai territori dei due centri antichi.
Nella fascia settentrionale, quella di pertinenza bergomensis, si registra il rinvenimento della villa di Sergnano, di resti di insediamenti e strade nell’area compresa tra Romanengo e a N di Genivolta e Soresina. Nel settore centro-meridionale, quello dell’ager cremonensis, oltre ad alcuni resti insediativi tra Casalbuttano e Soresina, di notevole interesse sono l’area di Olmeneta, con quattro siti, e la villa di Pozzaglio.
La documentazione archeologica
Nella fase più antica, nel II e agli inizi del I secolo a.C., le testimonianze sono piuttosto rarefatte e limitate. A Pozzaglio loc. Solarolo del Persico, sul futuro sito di una villa, si hanno le prime tracce, non a carattere edilizio, a partire dalla fine del II secolo a.C., come emerge dai dati relativi al materiale ceramico presente negli strati più antichi. Al medesimo periodo sono riconducibili le notizie di frequentazioni, anche in questo caso desunte esclusivamente dal materiale ceramico senza contesti edilizi, di Olmeneta (Sito 32), Corte de’ Cortesi (Sito 41), Casalbuttano (Sito 38). È quindi possibile che in questa fase, non essendo il territorio ancora pienamente sotto controllo, l’insediamento fosse non solo rarefatto, ma concentrato in aree più sicure, magari gravitanti attorno alla città e, come nel nostro caso, lungo il settore orientale, comunque in area con presenza cenomane e quindi fedele a Roma, a partire dalla vittoria romana di Gaio Cornelio Cetego.
Nella maggior parte degli impianti individuati tuttavia sembra intensificarsi la frequentazione nel I secolo a.C., forse successivamente al nuovo riassetto della centuriazione di età triumvirale, che dovette provocare significativi cambiamenti dal punto di vista della densità distributiva e delle sorti delle proprietà preesistenti.
I dati si fanno più cospicui a partire dal I sec. d.C. e, nel nostro caso, emergono tre grandi impianti: Pozzaglio (Sito 50), Olmeneta (sito 33) e Sergnano (Sito 22) [6] .
I tre siti pur non essendo, come vedremo, gli unici portati alla luce, si rivelano di maggior interesse in primis per la superficie individuata e, poi, per la tipologia delle evidenze che permette di cogliere una più articolata distribuzione planimetrica.
Tav.1 Pianta del sito di Pozzaglio
A Pozzaglio (Sito 50), pochi metri a E dalla via Brescia, che ricalca in parte l’antico percorso romano, cardine della centuriazione cremonese, è stato individuato un complesso piuttosto articolato (tav. 1). Il sito si sviluppava in due nuclei contigui, uno a N, con la presenza di un’area destinata ad attività di servizio e uno a S, nel quale è stato individuato un edificio.
Il limite N delle strutture è rappresentato da un canale di scolo che doveva servire allo smaltimento degli scarichi dell’edificio.
Immediatamente a S del canale si sviluppa un ambiente le cui caratteristiche fanno pensare a un lungo corridoio di collegamento tra i vani, con un probabile accesso a S e l’andamento di alcune fondazioni suggerisce la prosecuzione dell’edificio verso O.
Lungo il fronte meridionale sono stati individuati un pozzo e alcuni pilastri.
Si delinea così un’area centrale aperta e porticata.
Nel corso degli anni il primigenio impianto venne implementato con la costruzione di nuove strutture che si aggiunsero alla porzione meridionale dell’edificio, rimodulando l’area porticata e i vani collegati al corridoio.
Il nucleo a N della villa costituiva parte del lotto appartenente alla proprietà, destinato all’ambito agricolo e produttivo.
Alcuni canali regolavano il flusso delle acque per le esigenze agricole, mentre una serie di buche di palo costituiva probabilmente l’anima di strutture in legno, utilizzate come ambienti produttivi, rimesse o ricovero per gli animali.
Erano poi presenti un pozzo e i resti di una strada interpoderale.
Nel corso degli anni l’area subì alcune modifiche inerenti il sistema di canalizzazione e comparvero alcune buche, forse per cavare argilla per le costruzioni e ricavarne al contempo spazi per scarico dei rifiuti.
Il sito di Olmeneta (Sito 33) (tav. 2) è stato individuato a NE dell’attuale abitato.
Venne edificato su un dosso fluviale dell’Oglio, quindi in una porzione relativamente vicina al fiume e ai vantaggi che ne derivavano, ma comunque al riparo dal rischio idrico degli allagamenti. Inoltre, la scelta, come per la villa di Pozzaglio, venne dettata probabilmente dalla vicinanza dell’antica via Brescia7 , poco distante.
Il primo sfruttamento dell’area, databile al I secolo a.C. è relativo alla presenza di strutture in legno, come si evince da numerose buche di palo.
Non è possibile stabilire una planimetria o una destinazione funzionale precise, in quanto tale tipo di strutture poteva avere sia carattere residenziale, seppure modesto [8] , sia produttivo o funzionale alle attività agricole (magazzini, stalle et cetera)[ 9] .
Sono state inoltre ritrovate due tracce riconducibili ad aratura, ma la loro posizione ed esiguità lascia alcuni dubbi circa la reale funzione.
Agli inizi del I secolo d.C. si assistette a una rimodulazione generale: furono rimosse le costruzioni di legno dell’area centrale per far spazio a un nucleo in muratura e l’area edificata, sebbene labile, si distribuì notevolmente in maniera eterogenea. Una serie di strutture murarie definiva, nell’area centrale, due vani di modesta grandezza.
Questi facevano parte di un edificio più articolato, ma non è chiaro se residenziale o di servizio.
 All’esterno, a N, erano inoltre presenti due fosse di fusione del ferro, per attività artigianali (fig. 1).
Nel settore meridionale e occidentale invece, erano presenti lacerti murari, pilastri e buche di palo, tra cui alcune che delineavano una struttura rettangolare per contenere attrezzi o derrate.
Dal punto di vista distributivo di un certo rilievo appare la fondazione individuata a N, da mettere in relazione con un edificio più imponente, di cui non si hanno però ulteriori tracce, perché oltre il limite occidentale dello scavo. Va sottolineato tuttavia come la presenza di canalizzazioni di scolo in nuda terra poco distanti potesse rappresentare un limite di proprietà o di destinazione d’uso con le costruzioni individuate a S. È probabile infatti, che le strutture meridionali fossero di servizio alla pars rustica di un complesso ampio e plurinucleato, la cui separazione era sovente prescritta anche per scongiurare rischi di incendio dell’intero complesso [10]. L’edificio di Sergnano (Sito 22) (tav. 3) sorgeva, nella prima metà del I secolo d.C., poco a O del Serio, al riparo dalla valle del fiume, che, come ancora oggi visibile dai numerosi resti di meandri antichi, aveva un percorso tortuoso e instabile.
 Le evidenze ritrovate, nonostante l’esigua area di scavo [11], suggeriscono un impianto di grandi dimensioni che usufruiva di una superficie estesa.
Tav.2 Pianta del sito di Olmeneta
Il limes settentrionale dell’edificio era costituito da un canale, che creava un divario netto tra la superficie edificata, quella a S, e quella destinata probabilmente alla coltivazione. Dell’edificio è stata individuata una serie di vani, con una certa articolazione spaziale (figg. 2-3).
Fig. 1 La fossa per la fusione del metallo
Definiscono una distribuzione ad L e tale perimetro è assecondato dall’andamento di un piccolo canale, da mettere in relazione con il punto di caduta della copertura, come scolo pluviale.
 Il fronte meridionale si affacciava su un portico scandito da una serie di pilastri.
Dei tre pilastri individuati, quello cen- 41 trale aveva dimensioni più modeste e appariva leggermente disassato, forse in conseguenza di un suo inserimento posticcio per rinforzare il sostegno del portico.
 In aderenza a uno dei pilastri è stata rinvenuta parte di un’anfora infissa nel suolo, al cui interno era presente un’olla con coperchio, con funzione attribuibile a un rito di fondazione.
Poco a S del portico una serie di strutture murarie, frutto di un’aggiunta posteriore, sono riconducibili alla presenza di elementi per le attività di servizio.
A S dell’edificio era presente uno sviluppato sistema idraulico di servizio per il complesso. Oltre alla posa di due pozzi venne costruita una vasca rettangolare.
Tav. 3 Pianta del sito di Sergnano
Dalla vasca, che tagliava un canale E-O preesistente, ma forse in parte ancora in uso, si dipartiva ad O un altro canale che proseguiva in direzione dell’edificio e il rinvenimento di elementi di fistula plumbea si ricollega alla presenza di una tubatura.
La vasca costituiva quindi una cisterna di raccolta dell’acqua piovana, tra cui quella proveniente dalla copertura dell’edificio, convogliata nei canali.
Ad un certo momento, tra l’edificio e l’impianto di smistamento delle acque, si inserì una strada interpoderale, disorientata rispetto al complesso, che doveva servire per gli spostamenti interni dei mezzi.
Oltre ai tre grandi nuclei sopra descritti, è stato individuato un buon numero di siti coevi, riconducibili a resti insediativi. La loro descrizione risulta limitata in quanto spesso si tratta di siti appena intercettati dai lavori di posa del metanodotto e quindi non indagati su una superficie estesa.
Si tratta comunque di strutture assimilabili ad aree di servizio o ambiti residenziali di fattorie e ville [12]. Seppur limitati e di non facile lettura essi contribuiscono comunque a completare il quadro generale al riguardo.
L’analisi integrata di tutte le evidenze insediative infatti, permette di presentare diverse osservazioni.
Il primo elemento che emerge è legato all’adattamento di questi siti al territorio naturale.
Dal punto di vista geomorfologico la rete dei lavori ha coinvolto numerose unità, come il livello fondamentale della pianura, dossi e paleomeandri, in una porzione di territorio solcata da importanti corsi d’acqua, come l’Oglio e il Serio[13].
Un assetto quindi abbastanza eterogeneo e complesso, che ha influenzato le scelte insediative sin dall’antichità, soprattutto da parte dei Romani, i quali ben sapevano cogliere le potenzialità e i caratteri di un territorio [14].
La totalità dei siti individuati occupa infatti, aree geomorfologicamente felici per l’insediamento.
Fig. 2 Particolare delle fondazioni di un ambiente dell'edificio di Sergnano
Un caso degno di nota è rappresentato dai numerosi insediamenti rinvenuti tra Olmeneta e Corte de’ Cortesi.
Oltre al Sito 33 infatti, sono stati individuati nuclei molto vicini, tutti impostati sul medesimo dosso fluviale prospiciente l’Oglio [15], indice di un’attenta lettura, ai fini insediativi, del paesaggio naturale.
Le scelte insediative, adattandosi necessariamente al territorio naturale, sottintendono inoltre esigenze di comodità ai collegamenti con le infrastrutture, come dimostra la vicinanza di molti siti alla via Brescia.
Dal punto di vista costruttivo per i tre nuclei di Pozzaglio, Olmeneta e Sergnano la maggior parte delle evidenze è relativa a resti murari, con utilizzo di materiale laterizio e, ma solo nel caso della vicinanza ai bacini di approvvigionamento come a Sergnano, lapideo.
Fig. 3 Panoramica di alcuni amienti della villa di sernano in corso di scavo
Per gli altri siti vi è predominanza di strutture lignee, mentre più limitata, non solo per la destinazione funzionale probabile, ma anche perché in alcuni casi non individuata, appare la presenza di strutture in laterizio.
In questi ultimi casi si trattava probabilmente di resti di fattorie o di aree di servizio collegate ad impianti di grande dimensione.
Va infatti tenuto conto che per ragioni evidenti spesso le proprietà erano plurinucleate, con la conseguenza che, alla luce della lacunosità dei resti e dell’esiguità delle superfici indagate, l’attribuzione funzionale certa diventa rischiosa e fuorviante nell’ambito della lettura distributiva del popolamento [16].
Inoltre, non possiamo escludere la possibilità che alcuni insediamenti potessero appartenere ad agglomerati di edifici, alla stregua di villaggio, come i vici [17].
 Per quanto concerne considerazioni di carattere planimetrico sono ancora i tre siti principali a fornire maggiori spunti.
L’impianto di Sergnano, si presenta con una di stribuzione tale per cui la presenza di aree cortilizie e del portico lasciano ipotizzare una struttura a sviluppo lineare, o, tenendo conto che le due tipologie non hanno una differenziazione così netta [18], più probabilmente ad “U”, organizzata intorno ad un’area scoperta.
Questa articolazione prevede quindi uno sviluppo su tre lati, aperti su un’area di cortile, generalmente verso S, secondo uno schema classico molto diffuso per l’edilizia rurale, che trova confronto in un buon numero di edifici censiti nella Venetia e in Aemilia [19].
I medesimi caratteri sembra presentare la villa di Pozzaglio: un’area porticata su due fronti ed esposizione a mezzogiorno. In entrambi i casi l’esposizione a S, rientra appieno nelle raccomandazioni degli antichi agronomi [20]
In generale però, per tutti i siti individuati, si rivela ardua, se non impossibile, una definizione spaziale e funzionale completa tale da permettere di individuare con assoluta certezza una pars dominica e una pars rustica.
Ciò è dovuto non solo alla esiguità delle aree indagate, ma anche allo stato di conservazione delle strutture, tutte in fondazione, tale per cui non sono più presenti i piani pavimentali e le suddivisioni interne dei vani. Tuttavia, per quanto riguarda gli impianti con distribuzione a “U”, nello specifico Pozzaglio e Sergnano, alcuni confronti e alcune considerazioni legate all’esposizione ottimale, permettono di ipotizzare una dislocazione tra pars dominica nel settore occidentale e nord occidentale e pars rustica nella restante parte dei complessi [21].
Il sito di Olmeneta invece, con la presenza di nuclei distinti, non è di facile interpretazione planimetrica. Le strutture infatti, non sembrano avere carattere residenziale, ma funzionali alle attività agricole, quindi appare rischioso definirne i caratteri secondo categorie precise, anche se è possibile assimilarle alla definizione di “schema centrifugo” [22], cioè in cui diversi nuclei della medesima proprietà non si concentrano attorno ad un’area chiusa.
Per quanto concerne i sistemi idraulici, se si esclude il caso di Sergnano, i dati sono pressoché nulli o limitati ad aspetti più generali di gestione delle acque.
La labilità dei resti infatti non ha permesso di rinvenire condutture di scolo o di approvvigionamento, che pur in alcuni casi dovevano esserci, ma una serie di pozzi e di canali in nuda terra che talvolta fungono anche da perimetrazione o limes dei complessi, come per i già citati siti di Sergnano, Olmeneta e Pozzaglio; mentre altre volte i canali si rivelano funzionali alle attività agricole e irrigue, interagendo nella sintassi degli insediamenti ma facendo parte del più ampio sistema di bonifica e assetto agrario centuriale.
A tal proposito si rivela come l’assetto centuriale abbia chiaramente influenzato l’orientamento della maggior parte dei siti, che risultano coerenti ai due assetti presenti sul territorio.
Per Sergnano è evidente come l’orientamento del complesso corrisponda a quello dell’ager bergomensis e come l’edificio andasse a inserirsi probabilmente sul lato meridionale della centuria. Ugualmente, per l’ager cremonensis, gli edifici, tra cui Pozzaglio, risultano coerenti all’assetto centuriale.
Diversamente si delinea l’insediamento di Olmeneta, il cui orientamento generale non corrisponde a quello dei campi centuriati forse, proprio per la sua vocazione artigianale, non soggetto a uno schema di orientazione rigido, o per altri fattori.
Si può pensare infatti, che l’area fosse attraversata da una strada o da un canale preesistente con un andamento obliquo e che la fattoria si sia organizzata su questo asse, orientata quindi non con la centuriazione ma con un’infrastruttura interna alla centuria che non conosciamo.
Improbabile, per la presenza di alcuni allineamenti ancora visibili, si rivela invece la possibilità di essere in un’area non centuriata, anche se sappiamo che la vicinanza al fiume (in questo caso l’Oglio) come ad altri elementi naturali di impedimento, in fase di limitatio, dissuadeva dal prolungamento degli assi di divisione agraria23.
Per quanto riguarda la cronologia, tutti questi siti non sembrano proseguire oltre il IV-V secolo d.C., in cui si registrano gli abbandoni definitivi, eccetto il sito di Pozzaglio.
Degna di nota infine, oltre che ad alcune necropoli [24] e ai numerosi canali e opere di assetto agrario riconducibili alla centuriazione, è la presenza di tratti stradali antichi individuati [25].
Costituiti da laterizi frammentari pressati nel suolo, similmente alle strade che oggi i contadini utilizzano tra i campi per gli spostamenti dei mezzi, coincidono in massima parte con gli assi della centuriazione e testimoniano, oltre all’attività agricola intensa, l’esigenza di collegamenti interpoderali e con gli assi stradali più importanti.

Gianluca Mete

Dal testo Archelogia preventiva e valorizzazione del territorio
"PROGRESSO E PASSATO".
Nuovi dati sul Cremonese in età antica dagli scavi del metanodotto Snam Cremona-Sergnano
a cura di Nicoletta Cecchini (edizioni ET)



 NOTE

(1) PASSI PITCHER 2003, pp. 211-219; BENEDETTI 2012, pp. 242- 247. (2) In generale: Misurare la terra 1983. Sulla centuriazione cremonese: TOZZI 1972, pp. 7-51; TOZZI 2003a, pp. 110-122. (3) TOZZI 2003b, p. 240 (4) Per l’ager bergomensis: TOZZI 1972, pp. 73-95; CANTARELLI 1992, pp. 188-189. Per l’ager laudensis: TOZZI, HARARI 1987, pp. 41-48; METE 2011, pp. 9-23. (5) LURASCHI 1979; cfr. BONARDI supra. (6) Pozzaglio località Solarolo del Persico; Olmeneta area fienile Zucchelli; Sergnano area cascina Valdroghe. 39 Gianluca Mete, Giordana Ridolfi G
 (7) TOZZI 2003b, p. 248. (8) Varrone, De Re Rustica II, 10. (9) Columella, De Re Rustica, 12, 15. (10) Vitruvio, De architectura, VI, 6, 5: Horrea, fenilia, farraria, pistrina extra villam facienda videntur, ut ab ignis periculo sint villae tutiores (è opportuno situare i granai, i fienili, i magazzini per il farro, i forni, all’esterno della villa per evitare il pericolo d’incendi). (11) Va sottolineato come il sito, indagato parzialmente nel 2010, sia attualmente oggetto di indagini che potranno integrare i dati e chiarire in futuro uno sviluppo pressoché completo dell’edificio.
  (12) Romanengo (18), Olmeneta (32, 45, 63), Casalbuttano (38), Azzanello (4), Corte de’Cortesi (41), Bordolano (65), Robecco D’Oglio (55), Cremona (58). (13) PELLEGRINI 2003, pp. 19-34. (14) DALL’AGLIO 1996, pp. 59-68. (15) MARCHETTI 1992.
 (16) Diverse sono le problematiche legate al popolamento di età romana, soprattutto per la Pianura Padana. Alle difficoltà di attribuzione funzionale delle evidenze (ville, fattorie, aree plurinucleate, ecc.) si aggiunge la mancata corrispondenza dal punto di vista distributivo tra i lotti agricoli e le strutture individuate o individuabili (missing sites). Per un quadro generale sulla problema tica, anche se preannibalica e su altra area geografica: PELGROM 2008, pp. 333-372. Per Cremona un calcolo generale viene fornito da TOZZI 2003a, pp. 122-123. (17) Per un’analisi completa dal punto di vista terminologico e giuridico: CAPOGROSSI COLOGNESI 2002, pp. 5-47
 (18) Fa notare giustamente Gros: ”Il va de soi d’ailleurs que la coupure entre les deux grands types s’avere dans bien des cas moins nette qu’on ne le croit: nombreuses sont les villas à développement linéare qui, par l’adjionction d’ailes laterale délimitant une coeur intérieure”; GROS 2006, pp. 265-349, in particolare p. 325, con numerosi esempi dalle provincie occidentali. (19) Per la Venetia et Histria si vedano i numerosi edifici proposti in: BUSANA 2001, pp 507-538; DE FRANCESCHINI 1999, pp. 189- 191; DE FRANCESCHINI 1999, pp. 175-177; BUSANA 1999, pp. 223-239; BUSANA 2002. Aemilia: ORTALLI 1994, pp. 169-222; SCAGLIARINI CORLAITA 1989, pp. 11-36. Lazio: MUSCO, ZACCAGNI 1985, pp. 90-106. (20) Columella, De Re Rustica 1, 5.; Catone, De Agricultura, 1, 3: Si poteris […] in meridiem spectet (Quando possibile… che guardi a sud).
 (21) BUSANA 2001, p. 524. (22) ORTALLI 1994, pp. 176-184. (23) REGOLI 1983, pp. 98-100; DALL’AGLIO 2009, pp. 279-297.

lunedì 13 luglio 2015

UNA "ERESIA PADANA"? Il Movimento Sociale cattolico a Cremona nel Primo Novecento


L’esigenza del movimento cattolico di saldare in termini strategica- mente uniformi le espressioni di un attivismo che cominciava a dare frutti lusinghieri, ma isolati, appare evidente ad una prima considerazione della vicenda della stampa diocesana anteriore alla fondazione de «L’Azione» (1905). Spenti sul nascere conati intransigenti, come «Il Risveglio», i fogli successivi «Il Vessillo» (1895-1897) e «Il Cittadino» (1898-1904) avevano puntato al superamento delle divisioni e al raggiungimento di quella unità nel settore religioso, assistenziale, educativo e amministrativo che fu obiettivo ormai solidamente confermato nella prima assemblea diocesana di AC del 1904.
In questa stagione di ripresa organizzativa si colloca la nascita de «L’Azione che, espressiva della precorritrice sensibilità di Bonomelli sul tema del ruolo laicale ma anche dell’ineludibile chiamata del clero all’impegno sociale e civile, s’affidava nella sua prima stagione soprattutto a promo tor ecclesiastici quali T. Guarneri, E. Maffi, G. Varischi, L. Salomoni, L. Leoni, G. Brambilla, L. Vigna, I. Camelli. Solo in seguito all’originario nucleo si unirono figure più «politiche» come G. Ghisalberti, U. Ferrari, P. Brugnoli, A. Caramatti, A. Banderali, R. Cocchi, G. Speranzini e G. Cappi. Il giornale era
G.Miglioli
destinato, però, a ricevere l’impronta di G. Miglioli in maniera così profonda da essere identificato in pratica, dalla stessa successiva indagine storica, con la personalità e gli obiettivi del celebre organizzatore sindacale. Esso si trasformò, dunque, nel diario del leghismo bianco impegnato, nella fascia di terra fra l’Adda e l’Oglio, nelle lotte per l’introduzione, le riforme e l’osservanza dei patti colonici.
A differenza della pratica socialista, sostanzialmente e non casual ment concentrata sulla piattaforma salariale, il leghismo cattolico, e migliolino in ispecie, puntava a una progressiva estensione della proprietà della terra ai contadini. Prospettiva che, attraverso la tappa mediana della compartecipazione agli utili, sarebbe pervenuta a quella radicale revisione dell’assetto della proprietà terriera in va1 Padana che ebbe la sua espressione terminale, e clamorosa, nel Lodo Bianchi (1921). E’ noto come nel suo primo biennio di vita «L’Azione» risentì dell’influenza del padre della prima Democrazia Cristiana, R. Murri, le cui radicali posizioni furono veicolate a Cremona da p. Semeria, ancora non caduto in disgrazia per la questione modernista e frequentatore assiduo della diocesi di Bonomelli, Il concetto di democrazia cristiana murriano conobbe però nell’esperienza cremonese una sorta di riedizione migliolina da cui uscì con quella più marcata accentuazione contadina che, sul piano nazionale, doveva risolversi col problematico isolamento entro una mistica rurale non priva di tratti arcaici ed esasperatamente provinciali.
G.Cappi
Nel 1908 entrò nella redazione del foglio migliolino il giovane avvocato G. Cappi, proveniente come E. Zelioli-Lanzini e P. Sentati, dall’AC locale e destinato, nel secondo dopoguerra, a ruoli di primissimo piano nel mondo politico e giudiziario[1]. Il suo ingresso fu sollecitato dallo stesso Bonomelli, diviso fra inquietante prospettiva di una progressiva saturazione radical-socialista degli spazi politico sociali e appoggio, talvolta problematico, alla linea migliolina.
I termini in cui fu impostata la campagna elettorale di Cappi nelle elezioni amministrative del 1910 ne scoprono già il futuro ruolo politico:
antiliberale, sì, ma soprattutto antisocialista, impersonante cioè i versante più debole nella fisionomia politico-culturale de «L’Azione». Nella sfasatura non sempre lieve del foglio rispetto agli orientamenti ufficiali del mondo cattolico italiano è così possibile isolare la posizione del gruppo cremonese sui grandi temi che, alla vigilia del primo conflitto mondiale, divisero l’opinione pubblica: spedizione libica, suffragio universale, patto Gentiloni. Si accumularono qui i primi dissensi, spesso enfatizzati con qualche compiacimento localistico e antiromano, che sarebbero sfociati nella politica fiancheggiatrice — ma mai del tutto consenziente — del gruppo migliolino al Partito Popolare.
Per ora, ovviamente, sono poco più che «dati», suscettibili di divenire storicamente significativi a condizione che queste reazioni locali, spesso grezze e pesantemente polemiche, alla politica giolittiana, siano collegate a una conoscenza sociologicamente meno indistinta dell’ambiente che genericamente definiamo «migliolino» e delle forze economiche che vi interagivano.
Sull’intervento libico il foglio cattolico, pur mantenendo una certa compattezza esteriore, tradisce interne tensioni profonde: ne esce incrinata e storiograficamente impraticabile l’ipotesi di un anti-interventismo unanime, passato dal «no» circoscritto al caso libico al «no» globale teorizzato da Miglioli che avrebbe definito la guerra come «delitto di lesa umanità». Cappi, per esempio, andava sollecitando nei cattolici maggiore consapevolezza politico civile e non esitava a parlare di oltranzismo pacifista come di «delitto di lesa Patria». La divergenza fra i due, andando ben oltre il mero dissenso contingente, rinacque in occasione del suffragio universale.
Miglioli, leggendovi i tipici segni del motu proprio giolittiano osservò: «Non è ammissibile che il capo del governo abbia giocato una carta contro se stesso».

Indubbiamente, c’era una vena non lieve di apriorismo polemico che stentava a sollevarsi dalla lettura contingente e dalla conseguente convinzione che le masse lavoratrici, dopo la lunga ipnosi trasformista, non fossero in grado di dare un significato antiministeriale al proprio voto, per salutare nella riforma un incremento democratico comunque in atto. La riserva critica di Cappi, e con lui della componente moderata, nasceva invece dalla consapevolezza di una sostanziale inadeguatezza dell’iniziativa giolittiana rispetto alla qualità della domanda di partecipazione politico-civile di cui era stato portatore nel corso dell’800 il movimento cattolico. Echeggiava, in questo senso, nella riserva di Cappi il classico disagio cattolico verso i riti della moderna democrazia formale che, implicitamente, identificava la «verità» con la casuale sommatoria numerica [2].
Il tentativo, peraltro lecito, di trovare nel microcosmo de «L’Azione» i segni di una progressiva maturazione dell’idea di partito, deve dunque fare i conti coll’empirismo migliolino, col suo modo di fare politica in maniera strettamente funzionale alle esigenze delle plebi rurali, secondo un atteggiamento che divenne esemplare di fronte al patto Gentiloni (1913). «L’Azione», contravvenendo all’abituale intransigenza ideologica, lo valutò in termini esclusivamente utilitaristici: «proprio noi dobbiamo essere sempre quelli che danno, danno senza nulla ricevere?». Non è un caso che il giudizio di Miglioli sul gentilonismo sia superato in durezza da quello del più duttile Sturzo che, in quell’occasione, non esitò a parlare di «prostituzione» di un voto. Le elezioni politiche del 1913 segnarono per il cattolicesimo locale la prima rilevante affermazione in un contesto di difficilissima correzione politica; a Soresina dominavano per tradizione i radicali (Pavia) e socialisti (Caldara), a Crema i moderati, a Cremona i radicali, a Pescarolo i socialisti, a Casalmaggiore i costituzionali. Fu nel primo di questi collegi che Miglioli ottenne la maggioranza assoluta entrando così in Parlamento. «L’Azione» subì di conseguenza una ristrutturazione profonda e divenne quotidiano. Quando si trattò di definire secondo schemi non equivoci il programma del gruppo e la linea politica del giornale toccò a Cappi rimaneggiare il testo di Miglioli, prima di sottoporlo all’approvazione del vescovo. L’impressione che è lecito ricavare dai colloqui, quasi quotidiani, fra Cappi e Bonomelli nel triennio 1911-1913, è quella di una evidente preoccupazione «frenante», intesa a ricondurre, nei limiti del possibile, certa «eccentricità» migliolina entro i più generali schemi culturali e operativi del movimento cattolico nazionale. Nelle pagine de «L’Azione» sono dunque già individuabili i motivi del futuro dissenso fra Cappi e Miglioli: ancorato il secondo all’idea di classe e di immediata politicizzazione del proletariato della terra, volto il primo all’idea di partito come necessario strumento di democrazia moderna e di mediazione degli interessi della compagine sociale in prospettiva interclassista.
Nelle successive elezioni amministrative del 1914 Cappi fu candidato a Pescarolo dove L. Bissolati, deputato nel secondo collegio di Roma, intendeva tuttavia mantenere il proprio personale serbatoio elettorale[3]. Ciò permise ai cattolici di impostare la campagna elettorale in termini di moralizzazione della classe politica, facendo leva sul malcontento di «contadini sacrificati a giochi di autentica massoneria» e sul paradosso che, a Cremona, vedeva i partiti di sinistra utilizzare il voto e le attese proletarie in funzione di interessi borghesi[4]. Il linguaggio fu immediatamente inteso e l’esito segnò per Cappi, pur perdente con minimo scarto rispetto al socialista Bertesi, una dignitosa sconfitta. Il varco della penetrazione cattolica nell’area cremonese tradizionalmente infeudata dai socialisti poteva dirsi aperto.
Mutarono nel frattempo alcuni elementi chiave della realtà locale. G. Bonomelli si spense nell’agosto 1914, a un mese di distanza da Pio X. Nell’aprile del 1915 gli successe mons. G. Cazzani, proveniente da Cesena. Il bisogno di una più netta distinzione fra gli orientamenti ufficiali della diocesi e l’azione politico-sociale del laicato non tardò a precisarsi come nuova direttiva della curia, che espresse una serie di puntuali distinguo fra la stampa migliolina e quella di diretta emanazione ecclesiale quale «La voce dei Giovani», che fu stampata fino al periodo fascista.
I verbali della giunta diocesana di AC, che a Cremona si diede struttura organica non prima del 1916, esprimono una crescente preoccupazione di chiarimento dottrinale sul tema, a tutti gli effetti dirompente, dell’intervento militare italiano nel conflitto mondiale. Il radicalismo pacifista dell’on. Miglioli aveva ricevuto clamorosa censura in Parlamento dallo stesso Salandra: «Ella continua anche qui la sua propaganda antipatriottica».
Sulla questione la curia cremonese presentava quel cauto possibilismo, gradualmente incline a intendere le ragioni dell’intervento, che, tuttavia, non compromise mai la personale convinzione apolitica e pacifista di mons. Cazzani. Numerosi studi (per es. L. Bruti Liberati) hanno fatto ormai luce su questo aspetto pervenendo, fra l’altro, a un sostanziale ridimensionamento della presunta sconfessione dell’operato migliolino apparsa sul «Bollettino Diocesano» nell’ottobre del 1916[5]. Una vivace dialettica ovviamente percorreva al riguardo il clero cremonese, ma la sua grande maggioranza era per il non intervento, con qualche episodio di disfattismo rilevabile dai numerosi processi intentati contro sacerdoti cremonesi negli anni di guerra e quasi sempre originati da articoli di contenuto delatorio comparsi sul giornale di Farinacci. Il clero parrocchiale, e in parte la stessa curia, sentivano ovviamente il poderoso condizionamento di una realtà contadina sfruttata, prostrata e comprensibilmente refrattaria ai richiami dell’etica patriottica: «Chiunque entra in un paese di campagna e tiene un linguaggio patriottico — scriveva a I. Camelli un modesto parroco di campagna — non ha certo troppo sicure le spalle, tanto è l’avvilimento di queste popolazioni»[6]. Non diversamente, anche se con considerazioni di più ampio respiro storico, il vescovo Cazzani si rivolgeva a Toniolo, ribadendo la necessità che i cattolici trovassero una «via propria» non confondibile con l’opportunistico interventismo di «massoni e compari, patriotti a loro tornaconto»[7]. Nel frattempo sulle colonne de «L’Azione» si misuravano nelle rispettive verità di parte il moderato interventismo di Cappi, partecipe sul problema della guerra del tradizionale atteggiamento cattolico di delega all’autorità costituita, e l’incondizionato neutralismo di Miglioli che, in quei mesi, fu protagonista di clamorose polemiche con p. Gemelli e A. Bresciani. Il deputato di Soresina nella giunta di AC riunita a Roma nel gennaio del 1917 per discutere l’atteggiamento cattolico di fronte alla guerra propose un o.d.g. incondizionatamente pacifista, accelerando il suo isolamento rispetto ai più cauti orientamenti seguiti dal resto del mondo cattolico.
A Cremona, a parte il caso per molti versi «eccentrico» di I. Camelli, era soprattutto Cappi a sviluppare le ragioni del dissenso con lo spregiudicato utilizzo dell’antitesi classe-nazione praticato da Miglioli e Speranzini, che si preparavano a fare della rigida osservanza neutralista la discriminante e, forse, la spaccatura all’interno del Partito Popolare. La prima sezione cremonese del partito nacque subito dopo l’appello «ai liberi e forti» su iniziativa delle personalità più significative dell’unione popolare: Cappi, Miglioli, Sentati, Zelioli-Lanzini e Brugnoli, futuro segretario politico della sezione locale.
Il caso di Cremona, però, si configurò immediatamente per la definizione di quella atipica fisionomia ideologica che Miglioli espose «in termini sensazionali» in una dichiarazione programmatica di un mese anteriore alla fondazione del partito. Le elezioni politiche del novembre 1919 segnarono una buona affermazione del popolarismo cremonese e un successo personale di Miglioli. Andavano crescendo però, nel frattempo, le frizioni con la curia, mentre nel febbraio successivo esplodeva la polemica fra il leader bianco e il direttore de «L’Unità Cattolica», Calligari. Il gruppo cremonese era accusato di «socialismo, protestantesimo politico e modernismo». Su analoga piattaforma polemica Farinacci si preparava a liquidare, in chiave di restauratio cattolica, «l’equivoco popolare» presentando il migliolismo come l’eresia del cattolicesimo progressista.
L’espansione del partito procedeva tuttavia in modo discreto: nel maggio 1920 contava 108 sezioni con un totale di 5.100 iscritti. Erano, quelli, mesi di dura battaglia per il rinnovo dei patti agrari in terra castelleonese, dove si andava compattando il primo duro fronte padronale. Nelle amministrative dell’autunno, in cui il PPI cremonese adottò la tattica intransigente, l’aumento fu sensibile, anche se superato dalle forze del «blocco». Parte dei voti padronali s’erano inoltre concentrati sui socialisti, mentre cominciava a dare frutti la propaganda dei fasci locali che avevano da poco deliberato la costituzione di un sindacato economico provinciale, alternativo sia alle organizzazioni rosse che alle bianche.
Preoccupazione profondissima aveva poi destato, nel novembre del 1920, l’occupazione di molte terre del cremonese, guidata da Miglioli con l’obiettivo di una diretta gestione da parte dei coltivatori («la terra ai contadini»).
Il travagliato iter giuridico del cosiddetto Lodo Bianchi (1921-1922), apice della politica contrattuale migliolina (prevedeva l’estromissione del proprietario terriero in caso di assenteismo) ma anche suo punto di caduta, risultò già sintomatico dell’irrobustimento della reazione padronale e della personale spregiudicatezza di Farinacci che, in sede locale, ne favorì la ratifica, salvo poi chiederne alla Camera l’abrogazione governativa[8]. Lo stesso Filippo Meda, accanto ai cremonesi Cappi e Ghisalberti, intervenne per difendere la giuridicità del Lodo. La vicenda successiva, fino all’occupazione fascista della città, fu connotata da una crescente ansia di collaborazione popolare-socialista, in funzione antifascista, cui si convertirono, via via anche le personalità più caute del popolarismo cremonese.
Il 10 marzo 1922 si stipulò un accordo strettamente amministrativo, fra camere del lavoro e leghe comunali del PPI e del PSI, che, sottoscritto da Garibotti e Miglioli, tentava un ‘estrema difesa dei diritti dei lavoratori organizzati e il mantenimento cli condizioni di libera attività amministrativa. Suscitò, però, immediate difficoltà di ordine generale e una presa di distanza delle rispettive direzioni politiche centrali.
Allarmato per il susseguirsi delle violenze fasciste, a nome del popolarismo cremonese, Cappi espresse in una direzione nazionale del partito del giugno 1922 consistenti riserve verso la linea di Sturzo, più possibilista circa gli effetti «normalizzatori» di una protratta collaborazione popolare-socialista al governo. La vicenda del popolarismo cremonese stava comunque per concludersi: fra il luglio e l’agosto del 1922 i fascisti distruggevano la tipografia de «L’Azione», la Camera del lavoro e lo studio dell’on. Miglioli. Nel gennaio del 1925 giungeva, non inattesa, l’espulsione di quest’ultimo dal PPI per l’acuirsi delle divergenze con la direzione centrale del partito circa l’interpretazione della portata del patto popolare-socialista stipulato tre anni prima. Si consumava così l’ultimo atto della parabola politico-sociale del movimento cattolico cremonese, sovrastato dal tumultuoso profetismo di Miglioli, cui Sturzo — da Roma — non aveva cessato di guardare con ansia, come a una sorta di generosa ma avventata «eresia padana»[9].

di ADA FERRARI*  da "Storia Religiosa della Lombardia - Diocesi di Cremona" (La Scuola 1998)
*Professore associato di Metodologia nella ricerca storica all'Università degli Studi di Milano



NOTE
1-Sulla figura cfr. A. FERRARI, G.Cappi, pp. 8-12.
2- Frequenti riferimenti a limiti e insufficienze della pura «democrazia del numero» nel carteggio G. Cappi - P. Ciapessoni, presso Archivio Ghislieri, Pavia.
3 -Pescarolo è terra libera, sul mercato non si vende, in «L’Azione», 23 maggio 1914.
4-La commedia socialista per il collegio di Pescarolo, in «L’Azione», 29 maggio 1914.
5-BRUTI LIBERATI, Il mondo cattolico cremonese, e BELLÒ, G. Miglioli
6- Carte I. Camelli, in BSCR.
7-BRUTI LIBERATI, Il clero italiano, pp. 95-102.
8-ZANIBELLI, Le leghe bianche, e FAPPANI, G.Miglioli.
9-Frequenti accenni al problematico rapporto fra Miglioli e il PPI in DE ROSA, Il Partito Popolare; SPATARO, I democratici cristiani, e JACINI, Storia del Partito Popolare.



domenica 12 luglio 2015

Colombano, un santo tra l'Irlanda e l'Italia

Le vicende di San Colombano hanno un riflesso nel territorio nei dintorni di Cremona.
Infatti le tappe più significative della sua vita in Italia vedono il suo passaggio a Milano, San Colombano al Lambro e a Bobbio dove morì.
Le sue gesta sono quelle di un grande testimone cristiano, che ha lasciato un segno nella storia.
E' un santo che è entrato nella nostra realtà locale, infatti raggiungendo l'Italia si è stabilito a Bobbio nel piacentino, dove ancora riecheggia la sua grande personalità...

Quello che segue è un mio lavoro su Colombano realizzato per l'Istituto Comprensivo di Bobbio

SAN COLOMBANO