lunedì 13 luglio 2015

UNA "ERESIA PADANA"? Il Movimento Sociale cattolico a Cremona nel Primo Novecento


L’esigenza del movimento cattolico di saldare in termini strategica- mente uniformi le espressioni di un attivismo che cominciava a dare frutti lusinghieri, ma isolati, appare evidente ad una prima considerazione della vicenda della stampa diocesana anteriore alla fondazione de «L’Azione» (1905). Spenti sul nascere conati intransigenti, come «Il Risveglio», i fogli successivi «Il Vessillo» (1895-1897) e «Il Cittadino» (1898-1904) avevano puntato al superamento delle divisioni e al raggiungimento di quella unità nel settore religioso, assistenziale, educativo e amministrativo che fu obiettivo ormai solidamente confermato nella prima assemblea diocesana di AC del 1904.
In questa stagione di ripresa organizzativa si colloca la nascita de «L’Azione che, espressiva della precorritrice sensibilità di Bonomelli sul tema del ruolo laicale ma anche dell’ineludibile chiamata del clero all’impegno sociale e civile, s’affidava nella sua prima stagione soprattutto a promo tor ecclesiastici quali T. Guarneri, E. Maffi, G. Varischi, L. Salomoni, L. Leoni, G. Brambilla, L. Vigna, I. Camelli. Solo in seguito all’originario nucleo si unirono figure più «politiche» come G. Ghisalberti, U. Ferrari, P. Brugnoli, A. Caramatti, A. Banderali, R. Cocchi, G. Speranzini e G. Cappi. Il giornale era
G.Miglioli
destinato, però, a ricevere l’impronta di G. Miglioli in maniera così profonda da essere identificato in pratica, dalla stessa successiva indagine storica, con la personalità e gli obiettivi del celebre organizzatore sindacale. Esso si trasformò, dunque, nel diario del leghismo bianco impegnato, nella fascia di terra fra l’Adda e l’Oglio, nelle lotte per l’introduzione, le riforme e l’osservanza dei patti colonici.
A differenza della pratica socialista, sostanzialmente e non casual ment concentrata sulla piattaforma salariale, il leghismo cattolico, e migliolino in ispecie, puntava a una progressiva estensione della proprietà della terra ai contadini. Prospettiva che, attraverso la tappa mediana della compartecipazione agli utili, sarebbe pervenuta a quella radicale revisione dell’assetto della proprietà terriera in va1 Padana che ebbe la sua espressione terminale, e clamorosa, nel Lodo Bianchi (1921). E’ noto come nel suo primo biennio di vita «L’Azione» risentì dell’influenza del padre della prima Democrazia Cristiana, R. Murri, le cui radicali posizioni furono veicolate a Cremona da p. Semeria, ancora non caduto in disgrazia per la questione modernista e frequentatore assiduo della diocesi di Bonomelli, Il concetto di democrazia cristiana murriano conobbe però nell’esperienza cremonese una sorta di riedizione migliolina da cui uscì con quella più marcata accentuazione contadina che, sul piano nazionale, doveva risolversi col problematico isolamento entro una mistica rurale non priva di tratti arcaici ed esasperatamente provinciali.
G.Cappi
Nel 1908 entrò nella redazione del foglio migliolino il giovane avvocato G. Cappi, proveniente come E. Zelioli-Lanzini e P. Sentati, dall’AC locale e destinato, nel secondo dopoguerra, a ruoli di primissimo piano nel mondo politico e giudiziario[1]. Il suo ingresso fu sollecitato dallo stesso Bonomelli, diviso fra inquietante prospettiva di una progressiva saturazione radical-socialista degli spazi politico sociali e appoggio, talvolta problematico, alla linea migliolina.
I termini in cui fu impostata la campagna elettorale di Cappi nelle elezioni amministrative del 1910 ne scoprono già il futuro ruolo politico:
antiliberale, sì, ma soprattutto antisocialista, impersonante cioè i versante più debole nella fisionomia politico-culturale de «L’Azione». Nella sfasatura non sempre lieve del foglio rispetto agli orientamenti ufficiali del mondo cattolico italiano è così possibile isolare la posizione del gruppo cremonese sui grandi temi che, alla vigilia del primo conflitto mondiale, divisero l’opinione pubblica: spedizione libica, suffragio universale, patto Gentiloni. Si accumularono qui i primi dissensi, spesso enfatizzati con qualche compiacimento localistico e antiromano, che sarebbero sfociati nella politica fiancheggiatrice — ma mai del tutto consenziente — del gruppo migliolino al Partito Popolare.
Per ora, ovviamente, sono poco più che «dati», suscettibili di divenire storicamente significativi a condizione che queste reazioni locali, spesso grezze e pesantemente polemiche, alla politica giolittiana, siano collegate a una conoscenza sociologicamente meno indistinta dell’ambiente che genericamente definiamo «migliolino» e delle forze economiche che vi interagivano.
Sull’intervento libico il foglio cattolico, pur mantenendo una certa compattezza esteriore, tradisce interne tensioni profonde: ne esce incrinata e storiograficamente impraticabile l’ipotesi di un anti-interventismo unanime, passato dal «no» circoscritto al caso libico al «no» globale teorizzato da Miglioli che avrebbe definito la guerra come «delitto di lesa umanità». Cappi, per esempio, andava sollecitando nei cattolici maggiore consapevolezza politico civile e non esitava a parlare di oltranzismo pacifista come di «delitto di lesa Patria». La divergenza fra i due, andando ben oltre il mero dissenso contingente, rinacque in occasione del suffragio universale.
Miglioli, leggendovi i tipici segni del motu proprio giolittiano osservò: «Non è ammissibile che il capo del governo abbia giocato una carta contro se stesso».

Indubbiamente, c’era una vena non lieve di apriorismo polemico che stentava a sollevarsi dalla lettura contingente e dalla conseguente convinzione che le masse lavoratrici, dopo la lunga ipnosi trasformista, non fossero in grado di dare un significato antiministeriale al proprio voto, per salutare nella riforma un incremento democratico comunque in atto. La riserva critica di Cappi, e con lui della componente moderata, nasceva invece dalla consapevolezza di una sostanziale inadeguatezza dell’iniziativa giolittiana rispetto alla qualità della domanda di partecipazione politico-civile di cui era stato portatore nel corso dell’800 il movimento cattolico. Echeggiava, in questo senso, nella riserva di Cappi il classico disagio cattolico verso i riti della moderna democrazia formale che, implicitamente, identificava la «verità» con la casuale sommatoria numerica [2].
Il tentativo, peraltro lecito, di trovare nel microcosmo de «L’Azione» i segni di una progressiva maturazione dell’idea di partito, deve dunque fare i conti coll’empirismo migliolino, col suo modo di fare politica in maniera strettamente funzionale alle esigenze delle plebi rurali, secondo un atteggiamento che divenne esemplare di fronte al patto Gentiloni (1913). «L’Azione», contravvenendo all’abituale intransigenza ideologica, lo valutò in termini esclusivamente utilitaristici: «proprio noi dobbiamo essere sempre quelli che danno, danno senza nulla ricevere?». Non è un caso che il giudizio di Miglioli sul gentilonismo sia superato in durezza da quello del più duttile Sturzo che, in quell’occasione, non esitò a parlare di «prostituzione» di un voto. Le elezioni politiche del 1913 segnarono per il cattolicesimo locale la prima rilevante affermazione in un contesto di difficilissima correzione politica; a Soresina dominavano per tradizione i radicali (Pavia) e socialisti (Caldara), a Crema i moderati, a Cremona i radicali, a Pescarolo i socialisti, a Casalmaggiore i costituzionali. Fu nel primo di questi collegi che Miglioli ottenne la maggioranza assoluta entrando così in Parlamento. «L’Azione» subì di conseguenza una ristrutturazione profonda e divenne quotidiano. Quando si trattò di definire secondo schemi non equivoci il programma del gruppo e la linea politica del giornale toccò a Cappi rimaneggiare il testo di Miglioli, prima di sottoporlo all’approvazione del vescovo. L’impressione che è lecito ricavare dai colloqui, quasi quotidiani, fra Cappi e Bonomelli nel triennio 1911-1913, è quella di una evidente preoccupazione «frenante», intesa a ricondurre, nei limiti del possibile, certa «eccentricità» migliolina entro i più generali schemi culturali e operativi del movimento cattolico nazionale. Nelle pagine de «L’Azione» sono dunque già individuabili i motivi del futuro dissenso fra Cappi e Miglioli: ancorato il secondo all’idea di classe e di immediata politicizzazione del proletariato della terra, volto il primo all’idea di partito come necessario strumento di democrazia moderna e di mediazione degli interessi della compagine sociale in prospettiva interclassista.
Nelle successive elezioni amministrative del 1914 Cappi fu candidato a Pescarolo dove L. Bissolati, deputato nel secondo collegio di Roma, intendeva tuttavia mantenere il proprio personale serbatoio elettorale[3]. Ciò permise ai cattolici di impostare la campagna elettorale in termini di moralizzazione della classe politica, facendo leva sul malcontento di «contadini sacrificati a giochi di autentica massoneria» e sul paradosso che, a Cremona, vedeva i partiti di sinistra utilizzare il voto e le attese proletarie in funzione di interessi borghesi[4]. Il linguaggio fu immediatamente inteso e l’esito segnò per Cappi, pur perdente con minimo scarto rispetto al socialista Bertesi, una dignitosa sconfitta. Il varco della penetrazione cattolica nell’area cremonese tradizionalmente infeudata dai socialisti poteva dirsi aperto.
Mutarono nel frattempo alcuni elementi chiave della realtà locale. G. Bonomelli si spense nell’agosto 1914, a un mese di distanza da Pio X. Nell’aprile del 1915 gli successe mons. G. Cazzani, proveniente da Cesena. Il bisogno di una più netta distinzione fra gli orientamenti ufficiali della diocesi e l’azione politico-sociale del laicato non tardò a precisarsi come nuova direttiva della curia, che espresse una serie di puntuali distinguo fra la stampa migliolina e quella di diretta emanazione ecclesiale quale «La voce dei Giovani», che fu stampata fino al periodo fascista.
I verbali della giunta diocesana di AC, che a Cremona si diede struttura organica non prima del 1916, esprimono una crescente preoccupazione di chiarimento dottrinale sul tema, a tutti gli effetti dirompente, dell’intervento militare italiano nel conflitto mondiale. Il radicalismo pacifista dell’on. Miglioli aveva ricevuto clamorosa censura in Parlamento dallo stesso Salandra: «Ella continua anche qui la sua propaganda antipatriottica».
Sulla questione la curia cremonese presentava quel cauto possibilismo, gradualmente incline a intendere le ragioni dell’intervento, che, tuttavia, non compromise mai la personale convinzione apolitica e pacifista di mons. Cazzani. Numerosi studi (per es. L. Bruti Liberati) hanno fatto ormai luce su questo aspetto pervenendo, fra l’altro, a un sostanziale ridimensionamento della presunta sconfessione dell’operato migliolino apparsa sul «Bollettino Diocesano» nell’ottobre del 1916[5]. Una vivace dialettica ovviamente percorreva al riguardo il clero cremonese, ma la sua grande maggioranza era per il non intervento, con qualche episodio di disfattismo rilevabile dai numerosi processi intentati contro sacerdoti cremonesi negli anni di guerra e quasi sempre originati da articoli di contenuto delatorio comparsi sul giornale di Farinacci. Il clero parrocchiale, e in parte la stessa curia, sentivano ovviamente il poderoso condizionamento di una realtà contadina sfruttata, prostrata e comprensibilmente refrattaria ai richiami dell’etica patriottica: «Chiunque entra in un paese di campagna e tiene un linguaggio patriottico — scriveva a I. Camelli un modesto parroco di campagna — non ha certo troppo sicure le spalle, tanto è l’avvilimento di queste popolazioni»[6]. Non diversamente, anche se con considerazioni di più ampio respiro storico, il vescovo Cazzani si rivolgeva a Toniolo, ribadendo la necessità che i cattolici trovassero una «via propria» non confondibile con l’opportunistico interventismo di «massoni e compari, patriotti a loro tornaconto»[7]. Nel frattempo sulle colonne de «L’Azione» si misuravano nelle rispettive verità di parte il moderato interventismo di Cappi, partecipe sul problema della guerra del tradizionale atteggiamento cattolico di delega all’autorità costituita, e l’incondizionato neutralismo di Miglioli che, in quei mesi, fu protagonista di clamorose polemiche con p. Gemelli e A. Bresciani. Il deputato di Soresina nella giunta di AC riunita a Roma nel gennaio del 1917 per discutere l’atteggiamento cattolico di fronte alla guerra propose un o.d.g. incondizionatamente pacifista, accelerando il suo isolamento rispetto ai più cauti orientamenti seguiti dal resto del mondo cattolico.
A Cremona, a parte il caso per molti versi «eccentrico» di I. Camelli, era soprattutto Cappi a sviluppare le ragioni del dissenso con lo spregiudicato utilizzo dell’antitesi classe-nazione praticato da Miglioli e Speranzini, che si preparavano a fare della rigida osservanza neutralista la discriminante e, forse, la spaccatura all’interno del Partito Popolare. La prima sezione cremonese del partito nacque subito dopo l’appello «ai liberi e forti» su iniziativa delle personalità più significative dell’unione popolare: Cappi, Miglioli, Sentati, Zelioli-Lanzini e Brugnoli, futuro segretario politico della sezione locale.
Il caso di Cremona, però, si configurò immediatamente per la definizione di quella atipica fisionomia ideologica che Miglioli espose «in termini sensazionali» in una dichiarazione programmatica di un mese anteriore alla fondazione del partito. Le elezioni politiche del novembre 1919 segnarono una buona affermazione del popolarismo cremonese e un successo personale di Miglioli. Andavano crescendo però, nel frattempo, le frizioni con la curia, mentre nel febbraio successivo esplodeva la polemica fra il leader bianco e il direttore de «L’Unità Cattolica», Calligari. Il gruppo cremonese era accusato di «socialismo, protestantesimo politico e modernismo». Su analoga piattaforma polemica Farinacci si preparava a liquidare, in chiave di restauratio cattolica, «l’equivoco popolare» presentando il migliolismo come l’eresia del cattolicesimo progressista.
L’espansione del partito procedeva tuttavia in modo discreto: nel maggio 1920 contava 108 sezioni con un totale di 5.100 iscritti. Erano, quelli, mesi di dura battaglia per il rinnovo dei patti agrari in terra castelleonese, dove si andava compattando il primo duro fronte padronale. Nelle amministrative dell’autunno, in cui il PPI cremonese adottò la tattica intransigente, l’aumento fu sensibile, anche se superato dalle forze del «blocco». Parte dei voti padronali s’erano inoltre concentrati sui socialisti, mentre cominciava a dare frutti la propaganda dei fasci locali che avevano da poco deliberato la costituzione di un sindacato economico provinciale, alternativo sia alle organizzazioni rosse che alle bianche.
Preoccupazione profondissima aveva poi destato, nel novembre del 1920, l’occupazione di molte terre del cremonese, guidata da Miglioli con l’obiettivo di una diretta gestione da parte dei coltivatori («la terra ai contadini»).
Il travagliato iter giuridico del cosiddetto Lodo Bianchi (1921-1922), apice della politica contrattuale migliolina (prevedeva l’estromissione del proprietario terriero in caso di assenteismo) ma anche suo punto di caduta, risultò già sintomatico dell’irrobustimento della reazione padronale e della personale spregiudicatezza di Farinacci che, in sede locale, ne favorì la ratifica, salvo poi chiederne alla Camera l’abrogazione governativa[8]. Lo stesso Filippo Meda, accanto ai cremonesi Cappi e Ghisalberti, intervenne per difendere la giuridicità del Lodo. La vicenda successiva, fino all’occupazione fascista della città, fu connotata da una crescente ansia di collaborazione popolare-socialista, in funzione antifascista, cui si convertirono, via via anche le personalità più caute del popolarismo cremonese.
Il 10 marzo 1922 si stipulò un accordo strettamente amministrativo, fra camere del lavoro e leghe comunali del PPI e del PSI, che, sottoscritto da Garibotti e Miglioli, tentava un ‘estrema difesa dei diritti dei lavoratori organizzati e il mantenimento cli condizioni di libera attività amministrativa. Suscitò, però, immediate difficoltà di ordine generale e una presa di distanza delle rispettive direzioni politiche centrali.
Allarmato per il susseguirsi delle violenze fasciste, a nome del popolarismo cremonese, Cappi espresse in una direzione nazionale del partito del giugno 1922 consistenti riserve verso la linea di Sturzo, più possibilista circa gli effetti «normalizzatori» di una protratta collaborazione popolare-socialista al governo. La vicenda del popolarismo cremonese stava comunque per concludersi: fra il luglio e l’agosto del 1922 i fascisti distruggevano la tipografia de «L’Azione», la Camera del lavoro e lo studio dell’on. Miglioli. Nel gennaio del 1925 giungeva, non inattesa, l’espulsione di quest’ultimo dal PPI per l’acuirsi delle divergenze con la direzione centrale del partito circa l’interpretazione della portata del patto popolare-socialista stipulato tre anni prima. Si consumava così l’ultimo atto della parabola politico-sociale del movimento cattolico cremonese, sovrastato dal tumultuoso profetismo di Miglioli, cui Sturzo — da Roma — non aveva cessato di guardare con ansia, come a una sorta di generosa ma avventata «eresia padana»[9].

di ADA FERRARI*  da "Storia Religiosa della Lombardia - Diocesi di Cremona" (La Scuola 1998)
*Professore associato di Metodologia nella ricerca storica all'Università degli Studi di Milano



NOTE
1-Sulla figura cfr. A. FERRARI, G.Cappi, pp. 8-12.
2- Frequenti riferimenti a limiti e insufficienze della pura «democrazia del numero» nel carteggio G. Cappi - P. Ciapessoni, presso Archivio Ghislieri, Pavia.
3 -Pescarolo è terra libera, sul mercato non si vende, in «L’Azione», 23 maggio 1914.
4-La commedia socialista per il collegio di Pescarolo, in «L’Azione», 29 maggio 1914.
5-BRUTI LIBERATI, Il mondo cattolico cremonese, e BELLÒ, G. Miglioli
6- Carte I. Camelli, in BSCR.
7-BRUTI LIBERATI, Il clero italiano, pp. 95-102.
8-ZANIBELLI, Le leghe bianche, e FAPPANI, G.Miglioli.
9-Frequenti accenni al problematico rapporto fra Miglioli e il PPI in DE ROSA, Il Partito Popolare; SPATARO, I democratici cristiani, e JACINI, Storia del Partito Popolare.



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