mercoledì 27 maggio 2015

Storia di Amilcare Ponchielli, figlio prediletto di Paderno

Un personaggio storico cremonese di grande rilievo nel panorama musicale è senz’altro Amilcare Ponchielli.
Grande genio del bel canto, dal carattere insicuro e introverso, ha però creato delle melodie di sublime bellezza e armonia che hanno incantato il pubblico di ogni parte del mondo.
Riprendo un antico articolo di Giulio Mondini dal giornale la Provincia di Cremona del 1951 in occasione del 65° anniversario della morte di Ponchielli.
L’articolista ne delinea la sua figura e il rapporto con il paese d’origine.
“Storia di Amilcare Ponchielli, figlio prediletto di Paderno”
Amilcare Ponchielli è nato il 31 agosto 1834 in Paderno Fasolaro: così si chiamava allora la borgata di Paderno Cremonese che estende la sua pingue terra ai confini di Casalbuttano.
Questa denominazione, innocua, ma banale, riusciva ostica alla popolazione ed ai suoi amministratori,           i quali, dopo il successo di Amilcare Ponchielli nell'opera « I Promessi Sposi» (rappresentata il 15 settembre 1856 al Teatro Concordia di Cremona) inoltrarono una «supplica» all'I. R. Governo perché il nome di Paderno Fasolaro fosse sostituito con quello di Paderno Cremonese.
Nel registro battesimale dell'anno 1834 della Parrocchia di S. Dalmazio in Paderno, sotto il n. 49 leggesi:
«Anno Domini millesimo octingentesimo trigesimo quarto:
Die vero prima septembris ad. m Rev.d us D.uus Aloysius
Cogrossi curatus coad. Or huius Parocciae baptizavit infantem masculum heri hora undecima pomeridiana natum ex Ioanne Ponchielli fil. Iosephi. et Catharina Mora fil a Pétri ex hac Parocia. cui impositum fuit nomen Amilcar Ioseph:
Patrini fuerunt Carolus Chizzini Q. Iosephi ex Paroccia Sorexinae et Florinda Griffini fi. a Francisci ex hac Paroccia; ac prò fide Carolus Cavagnari Arci p».
Il padre, Giovanni Ponchielli, era insegnante elementare ed organista, e per migliorare il magro stipendio, teneva aperta una botteguccia di «sali tabacchi ed altri generi».
L'autore di «Gioconda» ebbe le prime rudimentali lezioni di musica dal padre che, all'età di 9 anni, lo affidò al Maestro Gorno di Casalbuttano, autore di varie sinfonie che per mezzo secolo hanno deliziato gli organisti ed i fedeli delle nostre chiese. Gli allievi (così mi narrava l'organista Puerari) erano parecchi e pagavano al Maestro due svanziche mensili: erano però tenuti a spaccare la legna e trasportare sul solaio i torsoli di granoturco che la Fabbriceria della Chiesa inviava al Maestro a complemento della paga di organista.
Incoraggiato dal Gorno, Amilcare Ponchielli affrontò gli esami di ammissione al Conservatorio di Milano dove venne accolto a dodici anni quale alunno convittore gratuito, per interessamento del senatore Stefano Iacini.
La leggenda che Ponchielli fosse restio a lasciare la casa paterna e che il padre sia stato costretto a caricarlo su una « gerla » affidata alle robuste spalle di un contadino, per il trasporto al Conservatorio, non ha alcun fondamento di verità.
Dal Conservatorio — dove ebbe, fra gli altri, a maestro Lauro Rossi, e dove compose “Ouverture campestre” che costituì la più luminosa rivelazione de! suo genio creativo — uscì carico di allori e di diplomi e, col cuore pieno di speranze, venne a stabilirsi a Cremona.
I primi anni furono assai duri: viveva stentatamente, coi proventi delle lezioni di pianoforte e con lo stipendio di organista della chiesa di S. Ilario ( 100 svanziche all'anno).
E quando poteva mettere in serbo qualche svanzica, si recava, a piedi, a Paderno, per offrirla ai suoi buoni vecchi.
In tali condizioni visse per un decennio, né gli valse il successo dei « Promessi Sposi » che venne attribuito a campanilismo, per il che nessun editore volle pubblicare la sua opera.
La rassegnata tristezza del Maestro — congiunta ad una certa ironia — traspare dalle
sue lettere.
Pur di campare in vita e mantenere il vecchio padre (la madre era morta ed il negozio passato ad altri)
Ponchielli aveva accettato il posto di capo musica della Guardia Nazionale di Piacenza.
Da questa città scriveva all'amico Bignami (in modo ironico): «Stiamo facendo acquisto di pignatte
ed altri insetti. D'ora in avanti le mie cure saranno rivolte ad una pignatta da schiumare,
al fuoco da attizzare, all'acqua ecc. ecc. Vagheggio anche l'idea di scopare! Ah si!
Attendere alle cure famigliari è una grande compiacenza! Se un giorno si è in collera con
qualcuno, si compera un pollastro vivo, e poi si va a casa e tract! Una tirata di collo per sfogo di bile... ».
Ed in altra lettera: «Sento che così continuando potrebbe venire un giorno da pericolare la mia testa; c'è caro mio, da diventar pazzi. Le relazioni e le famiglie più amiche non possono mettermi di buonumore che per un po' di tempo: quando sono solo, penso che il mio avvenire è perduto...
Scusa se ho delirato un po': un'altra volta, quando sarò completamente pazzo, ti scriverò con più raziocinio».
Ma, dopo tante sofferenze, spuntò finalmente l'alba radiosa della gloria: la sua opera « I Promessi Sposi » aveva trionfato al Teatro Dal Verme di Milano e, sulla fronte corrucciata del Maestro, passava finalmente un lampo di luce serena.
Teresina Brambilla, la impareggiabile «Lucia» che col Maestro aveva condivisi gli onori del successo, gli donava il suo amore e Ponchielli, incoraggiato da impresari ed editori, preparava all' arte i due gioielli musicali: «Lituani» e « Gioconda ».
Paderno Cremonese, che seguiva con orgoglio i trionfali successi del suo grande figlio, era in festa: il Consiglio Comunale si radunava in seduta straordinaria, ed, insieme alla cittadinanza, deliberava di conferire al Maestro una grande medaglia d'oro.
Amilcare Ponchielli — sempre modesto — rispondeva con questa lettera, gelosamente custodita nel Museo del Comune:
 Ill.mo Signor Sindaco,
Per una, strana circostanza so, appena da ieri, la deliberazione presa a mio riguardo dal Consiglio Comunale di costi, mediante la di lei gentile lettera che mi ha vivamente commosso. lo non credo certamente di meritare il dono onorifico che Paderno mi offre, sapendo di aver fatto troppo poco.
Ho appena cominciata una carriera spinosissima il cui proseguimento non so se potrà essere felice quanto ne fu il principio.
In ogni modo io accolgo questa bella prova di stima con vero trasporto e come una rara memoria del mo amatissimo paese.
La prego per tal cosa di evitare possibilmente ogni solennità, e di partecipare alla Giunta ed al Consiglio Comunale i sensi della mia più riva riconoscenza e gratitudine.
La riverisco distintamente, e mi creda di Lei Dev. e riconoscentissimo
Amilcare Ponchielli
La medaglia d'oro venne consegnata al Maestro a mezzo del Sindaco di Milano.
Ponchielli, che mai aveva dimenticato la sua terra natale, così
si esprimeva:
Ill.mo Signor Sindaco.
E’ coll’animo pieno di commozione che io La prego di aggradire i miei più sentiti ringraziamenti per la magnifica medaglia d'oro statami consegnata dall'Onorevole Sindaco di Milano in di Lei nome. Io andrò sempre lieto interprete presso l'Onorevolissimo Consiglio Comunale dei sentimenti della mia più profonda gratitudine e credermi con profonda stima di Lei umilissimo e devotissimo. 
A. Ponchielli
La situazione era invero « spinosissima » in quel periodo di tempo, per quanti volevano scrivere di musica, perché, in questo campo, dominava da assoluto padrone Giuseppe Verdi. (Ponchielli lo definisce: «il Gran Cancelliere Bismarck») mentre da oltr'Alpe mandava i suoi raggi luminosi l'astro wagneriano.
Inoltre Ponchielli era sempre dubbioso della sua opera e paventava oltre misura i giudizi del «gran pubblico».
Nel 1874 da Paderno scrive allo stesso Maini: «Qui si danno i « Promessi Sposi ». Ti avverto che, in proposito, ho già accaparrata una barca per fuggire, subito dopo la rappresentazione, sul Monte Santa Rosalia ».
A confortare l'animo trepidante del Maestro valse il trionfo dell'opera « I Lituani » (1875). 
Da Milano l'editore Ricordi così informava il Sindaco di Paderno: «Esito colossale, entusiasmo indescrivibile, trentun chiamate, tre pezzi replicati, esecuzione stupenda». 
Narrasi infatti che alla soprano Fricci furono in quella sera gettati trecento mazzi di fiori ed una signora fu vista staccare dal braccio un prezioso monile e gettarlo in dono.
Al successo dei « Lituani », seguì quello ancor più grandioso dell'opera « Gioconda » (Scala, 8 aprile 1876). E fu nell'allestimento di quest'opera - da lui prediletta, perché scritta « col cuore » -  che, recatosi a Piacenza in un crudo inverno, si ammalò di violenta polmonite che lo trasse alla tomba.
Paderno reclamò le spoglie del Figlio, ma tale onore venne riservato alla città di Milano per riporle nel Famedio dei Grandi.

Ora, il popolo di Paderno che ha raccolto il Suo primo vagito, che lo ha seguito con amore nei primi passi verso l'arte e sente l'orgoglio del suo genio creatore che ha commosso le folle di tutto un mondo, facendole palpitare in un'atmosfera eccelsa, creata dalle onde divine della sua musica, avendo raggiunto la costante aspirazione di vedere unito il nome di Paderno a quello del suo illustre Figlio, si appresta a celebrare solennemente il lieto avvenimento. (riferendosi al 65° anniversario della morte)

mercoledì 20 maggio 2015

"La moltiplicazione dei pani e dei pesci" di Bernardino Gatti a San Pietro al Po

Da scoprire presso la Chiesa di San Pietro è anche l'antico refettorio del Monastero dove vi è lo stupendo affresco della moltiplicazione del pani e dei pesci di Bernardino Gatti, detto il Soiaro.
L'opera è stata eseguita tra il 1549 e il 1552 su commissione dell’abate Colombino Ripari.
L’affresco, lodato già nelle fonti più antiche, rappresenta ben 226 figure e mostra evidenti riferimenti al classicismo romano di inizio Cinquecento.
Di grande effetto sono gli imponenti angeli che sovrastano l’intera scena e gli intensi ritratti a cui forse non fu estranea la cremonese Sofonisba Anguissola, allieva del Gatti a partire dal 1549.
Sulla parete di fronte, sempre nel refettorio, si trova il grande dipinto - un tempo sulla controfacciata della chiesa - risalente al XVII secolo, raffigurante un episodio della vita di San Bernardo di Mentone, opera di Jacopo Ferrari.
Merita un cenno anche la pala con i “Dottori della Chiesa che discutono della SS. Trinità” di Andrea Mainardi detto il Chiaveghino (1602), originariamente posta sul quarto altare di sinistra della chiesa. Di ignota provenienza è la piccola pala sagomata attribuita a Giacomo Guerrini (1746) che ritrae un santo francescano.
Un ambiente che merita di essere visto peccato che non sia aperto al pubblico...

domenica 17 maggio 2015

Il monumentale Organo Maineri-Acerbis di San Sigismondo a Cremona

Il maestoso organo Maineri-Acerbis (1567-1861) fu costruito da Luigi Vincenzo Acerbis nel 1861 con riutilizzo delle canne del precedente strumento edificato da Giovanni Francesco Maineri nel 1567.
E' collocato in una stupenda cassa lignea cinquecentesca realizzata su disegno di Bernardino Campi e doratura di Matteo Pesenti detto "Il Sabbioneta".
E' posto nel transetto sinistro, in cornu Evangelii.
La facciata dell'organo è suddivisa in 5 campate e la canna maggiore è il Fa di 12’.
Possiede una Tastiera di 58 tasti (Do1-La5) e divisione bassi-soprani tra Si2 e Do3 e una pedaliera a leggìo di 22 pedali (Do1-Sol#2), ritornellante; l’ultimo pedale aziona il Rollante.
Sul lato destro della pedaliera sono collocati i consueti pedaloni per Tiratutti e per la Combinazione libera "alla lombarda"
Lo strumento è stato restaurato dalla Ditta "Pedrini" di Binanuova nel 1995.

Riprendo la prefazione al libro sull'Organo a cura di Cesare Nisoli (ed. Turris) di Giuseppe Boroni, carissimo e compianto parroco della Chiesa di San Sigismondo.

Non posso fare a meno di partire dai ricordi e, naturalmente, da quelli legati ai primi anni della mia lunga permanenza a San Sigismondo come parroco. E' doveroso, per ogni parroco che si rispetti, curiosare tra le carte dell’archivio parrocchiale. Cosa peraltro facilitata dal fatto che succedevo al mai dimenticato don Franco che aveva, da pari suo, ordinato il tutto in contenitori ben allineati negli armadi sei-settecenteschi dell’archivio stesso.
In uno di questi contenitori trovai una carpetta che portava scritto in un angolo nella nitida grafia di don Franco: organo.
Scartabellando tra fogli e foglietti, ne ho trovati alcuni che portavano la dicitura: restauri. Si trattava di una fitta corrispondenza tra il parroco don Franco, un certo dott. Meli della Soprintendenza ai beni culturali di Brescia e la ditta organaria Piccinelli di Padova. Una corrispondenza fatta di progetti, promesse, richieste e... rinvii. E poi... il nulla di fatto. Siamo, se non vado errato, negli anni sessanta.
Lo scoglio non è difficile da immaginare: i soldi. «Non se n’è fatto nulla», mi diceva don Franco rammaricato. Ed io... riponevo la carpetta al suo posto. E dalla mente... perfino il pensiero di un eventuale restauro era allontanato.., come pensiero inutile.
Poi vennero gli anni dei concerti sugli organi storici della città voluti dall’amministrazione comunale (erano gli anni in cui era assessore alla cultura l'avvocato Luigi Magnoli) organizzati dal maestro Marco Fracassi. Siamo nella prima metà degli anni ottanta. Un’impresa per i valenti concertisti cimentarsi con uno strumento, del quale tutti lodavano la bellezza, ma che ogni anno mostrava sempre di più limiti dovuti al degrado.
E proprio a partire dai concerti che ogni anno venivano effettuati durante il mese di luglio incominciarono promesse, incoraggiamenti. Ad un certo momento sembrava perfino cosa fatta. «Abbiamo trovato la strada giusta» per superare l’ostacolo soldi. Ma poi tale non sì dimostrò. E così,., l’operazione restauro veniva messa da parte. Con però qualche cosa di diverso. Mentre negli anni precedenti si concludeva con un «non pensiamoci», ora invece il pensiero c’era. Anche perché, ogni anno che passava, l’organo metteva sempre più in mostra il suo degrado.
Finché., la decisione e con molto coraggio e non poca incoscienza il consiglio di amministrazione disse sì al restauro dell’organo: un’operazione «la affrontare con le sole forze della parrocchia. E i soldi? Già, il problema rimaneva. Ricordo di aver fatto fatica a scrivere la cifra su un cartello da mettere in fondo alla chiesa: ho contato più volte gli zeri nel timore di non averli scritti tutti.
Di fronte al problema soldi abbiamo fatto finta di niente. Ci siamo detti: diamoci da fare... . E le iniziative si sono moltiplicate.
Il resto è storia recente. La conosciamo tutti. C’è ancora da portare in fondo il pagamento delle ultime rate, mi dice don Cesare, il mio successore. Io lo guardo e sorrido... . Mi spiace... . Ma anche lui sa e si è accorto che il problema dei soldi c’è, è vero, ma nella vita della parrocchia, grazie a Dio, non è il primo e il più importante.
E intanto in quella carpetta con scritto in bella grafia in un angolo ‘organo’ si deve aggiungere un foglio, l’ultimo della serie con su scritto: ‘2-Inno 1994 giorno di Natale, l’organo restaurato dalla ditta Pedrini di Binanuova per quanto riguarda lo strumento e dalla ditta Poisa di Brescia per quanto riguarda la bellissima cassa dorata, è ritornato al primitivo splendore”: grazie alla generosità dei parrocchiani e all’incoscienza del sottoscritto.